Il sabato è finito

Il sabato è finito


Dal Vangelo secondo Marco (Mc 16,1-7)

Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare ad ungerlo. Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole. Dicevano tra loro: «Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?». Alzando lo sguardo, osservarono che la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande.Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”».

C’è un sabato da passare

Il vangelo di Pasqua inizia con un particolare che tra gli evangelisti solo Marco inserisce, un’indicazione di tempo: passato il sabato. Quando le tre donne compongono i bagagli per il viaggio al sepolcro, mettendoci dentro quegli oli essenziali per l’unzione del morto, è appena passato il sabato, proprio quel sabato di cui un altro vangelo dice che «era un giorno solenne quel sabato» (Gv 19,31). Ma cosa è accaduto davvero in quel sabato?

Sappiamo che Gesù è morto il venerdì santo – lo abbiamo ricordato anche ieri proprio qui in questa chiesa – e questa notte, in questa solenne Veglia che anticipa i bagliori della domenica (pure l’ora legale ci favorisce quest’anno!), celebriamo la risurrezione di Gesù, la sua Pasqua. Ma il sabato, in quel sabato che era appena passato, che cosa è successo? Nessuno lo dice.

Il sabato santo è il giorno del vuoto, il giorno dell’assenza, il giorno in cui – dice un antico autore – «sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine» (PG 43, 439), il giorno della segretezza e della incomunicabilità. Somiglia tanto a quei tanti “sabato santo” in cui anche noi ci sentiamo rinchiusi in un sepolcro, nei nostri vuoti, nelle nostre solitudini incolmabili; in cui silenzi che, a lungo andare, diventano pietre, macigni, sepolcri; negli angoli più remoti del nostro cuore nei quali a nessuno è permesso di entrare, in quelle fessure più nascoste di noi stessi che soltanto noi conosciamo, e che nessuno – come accade per i vangeli – potrà mai raccontare.

Ed è anche il sabato in cui l’unzione delle donne – che assomiglia molto a tutti quei palliativi e a quelle finte felicità di cui a volte riempiamo la nostra vita, nell’illusione di “stare bene” – altro non serve se non a prolungare la conservazione della morte. È sabato santo quando ci rendiamo conto di essere morti e, piuttosto che cambiare, ci accontentiamo di conservarci così, putrefatti, spalmando un po’ d’olio su di noi per far finta di stare meglio.

Questo è il sabato di Dio, questo è il nostro sabato santo.

Un mattino buono

Ora, il Vangelo pasquale inizia con l’indicazione che tutto questo non è per sempre, che il sabato è passato. Pasqua è, infatti, la certezza che ci è data un’altra esperienza da vivere, ci può essere – e c’è – una domenica che trasforma le cose, anche se attraverso il sabato bisogna passarci.

Celebrare la Pasqua significa affermare che noi non siamo schiavi del sabato, non possiamo lasciarci rubare la speranza della domenica, non possiamo arrenderci a credere che le cose non possano andare diversamente; che i sepolcri si vincono, che non possiamo convincerci di essere destinati alla putrefazione della morte, bensì alla gloria della risurrezione.

Il mattino è quello buono, il giorno è quello primo, il sole si leva… c’è dell’ottimismo in questo Vangelo, che non è mera utopia, ma speranza. Sì, perché il cristiano, se oggi celebra la Pasqua, non può non avere la speranza nel cuore. 

Quanti “oli” camuffano la nostra vita, quanti “unguenti” fingono di farci credere migliori! È questo il tempo della notorietà, dell’apparenza, della finzione… che spesso corrisponde all’infelicità, alla rassegnazione, alla disumanità. Ciò che cogliamo nei notiziari non ci incoraggia, ciò che sperimentiamo nella vita di tutti i giorni non ci consola, ciò che portiamo nel cuore non ci rassicura… ma davvero vogliamo accontentarci di rimanere in questo sabato? Di non provare a sperimentare la graziosa brina di un giorno nuovo? Di toglierci di dosso tutte le corazze che ci siamo messi e non sentire il profumo di una vita nuova che emana dal nostro cuore?

Alzare lo sguardo

Il Signore, quest’oggi, ci invita a fare tutto questo… nella coscienza che ciò non è semplice. Le donne del Vangelo vivono un sentimento che è anche il nostro, soprattutto di questi tempi: hanno paura. Sono donne che si incamminano spaventate – perché non sanno come dovranno fare – e sono donne che, anche davanti alla rassicurazione del giovane provano paura; sono donne che, persino dopo la conclusione del brano ascoltato, vivranno la paura di dover andare a raccontare agli altri quello che hanno visto. 

Hanno paura le donne, come spesso ne abbiamo anche tutti noi

Ma, come loro, anche noi non possiamo arrenderci davanti alle nostre paure. La Pasqua è, per tutti, un invito a vincere le paure, ad “alzare lo sguardo” dice il testo. Siamo troppo piegati a guardarci i piedi, siamo troppo prigionieri della nostra cultura materialista… ma ci vediamo per strada? Non riusciamo neanche ad accorgerci se un auto ci viene addosso, perché siamo troppo chini a guardare i cellulari… figuriamoci se riusciamo a guardare negli occhi la persona che abbiamo accanto! E se non riusciamo a guardarci negli occhi tra di noi, abbiamo la capacità di alzare gli occhi al cielo? Di credere che c’è qualcosa che vale la pena desiderare che supera i confini del nostro mondo? Che avere fede non è roba da bigotti, ma forza che dà il coraggio di rinnovare ogni giorno la nostra vita alla luce di una speranza che salva?

Non possiamo pretendere sempre di far tutto da soli, non possiamo essere soltanto noi la soluzione a noi stessi! La pietra del sepolcro è ribaltata da Qualcun altro, da qualcuno che non si può vedere rimanendo con gli occhi bassi a guardare il pavimento o il cellulare!

Abbiamo ancora paura?

Proviamo allora, in questo giorno di Pasqua, a consegnare al Signore risorto le nostre paure, perché insegni anche a noi, come a queste donne, a non rimanere schiacciati dalle pietre dei nostri “sabato santo”.

Per farlo, abbiamo bisogno anzitutto di entrare nel sepolcro, cioè di vivere quest’esistenza. Non si è felici immaginandosi altrove, scappando dalle nostre responsabilità, desiderando di fare qualcosa di diverso da ciò che siamo chiamati a fare ogni giorno… è questo il nostro sepolcro, nel quale occorre entrare fino in profondità per poter risorgere. Il nostro mondo è questo, non possiamo sognarne semplicemente un altro; possiamo, invece, entrarvi e riempirlo in un modo nuovo.

Poi, abbiamo bisogno anche noi di farci aiutare da un giovane che, seduto vicino a noi, con il suo entusiasmo ci incoraggia a non smettere di cercare. Ascoltiamoli questi giovani, proviamo a non aver paura; prendiamoli sul serio, ogni tanto, perché è insieme che dobbiamo avviarci al sepolcro. Abbiamo tutti bisogno di loro! Alcuni commentatori dicono che in questo giovane è Gesù stesso che si mostra alle donne; chissà quante volte il Signore ci è passato accanto nelle vesti di un giovane e noi lo abbiamo semplicemente snobbato, senza neanche ascoltarlo!

Infine, vinciamo la paura e troviamo il coraggio di andare in Galilea e annunciare. Se c’è una necessità che, oggi, si è fatta davvero urgente è quella di annunciare il Vangelo in Galilea. E non mi riferisco alla terra martoriata di Gesù – dove la guerra e lo sterminio creano nuovi sepolcri e infiniti sabato santo – ma parlo della “nostra Galilea”, quella che esiste oltre la porta di ingresso della nostra chiesa. Abbiamo bisogno di essere annunciatori, e di farlo a cominciare da questa domenica di Pasqua.

Perché solo se la gente vedrà in noi la speranza di una vita diversa, potrà capire che il sabato è davvero passato.

Buona Pasqua, carissimi, che sia davvero il segno di una vita che si rinnova: quella nostra, quella delle nostre famiglie, quella della nostra comunità, quella della nostra città, quella di tutto il nostro mondo.